
Dieselgate, l’impatto economico di un evento epocale
Come ha fatto il diesel-gate a diventare il diesel-gate? Perché una truffa operata da un solo costruttore (per quanto importante) e su un solo motore (sì certo, diesel) ha sparso livore e condanna su un’intera tecnologia, tra le più avanzate al mondo? Sulle prime, il Gruppo Volkswagen sarà stato anche contento di vedere il proprio nome sostituito in cartellone dal più generico motore diesel. Ma oggi, a distanza di 3 anni, dobbiamo concludere che lo scandalo ha prodotto danni rilevanti all’intera industria automobilistica europea, ben maggiori di quelli che avrebbe portato alla casa di Wolfsburg, se fosse rimasto appiccicato solo addosso a lei.
Non tanto perché uno solo è meno peggio di tutti, quanto perché i brand sono oggettivamente più forti di una tecnologia. In chiave di comunicazione e pubblica opinione, un brand, specialmente se desiderato e rispettato come quello Volkswagen, ha le capacità e i mezzi per risalire la china e far dimenticare, se non perdonare, l’errore commesso. Il primo mezzo è il fatto stesso che un’azienda se ne curi, laddove la tecnologia diesel appartiene a tutti e dunque nessuno si fa carico di difenderla dagli attacchi modaioli quanto ingiustificati. Per spiegarlo in cifre, nel nostro Paese quando scoppiò lo scandalo, a fine settembre del 2015, il Centro Studi Fleet&Mobility registrò il seguente fenomeno: un immediato e forte calo delle vendite Volkswagen, che trascinò in basso l’intero mercato poiché i clienti non deviarono su altri brand, con un altrettanto drastico recupero a novembre di Volkswagen e del mercato, quando quegli stessi clienti conclusero che non c’era problema.
Insomma, se avessimo rigettato la semplicistica e generica definizione, oggi pochi appena ricorderebbero che nel 2015 un costruttore fu pizzicato a truccare delle centraline e un diesel-gate nemmeno ci sarebbe. Ma all’epoca non sapevamo che 3 anni dopo gli Stati Uniti avrebbero gettato la maschera, dichiarando che il vero problema è lo squilibrio commerciale delle tante auto tedesche che si imbarcano ogni anno per attraversare l’oceano, troppe rispetto alle pochissime americane che vengono qua. Secondo Jato Dynamics, nel primo trimestre dell’anno le vetture assemblate in Germania e vendute negli USA sono state 164.000 (pari a una quota del 4% di quel mercato) contro le 11.800 che hanno fatto la strada inversa (occupando lo 0,3% delle vendite in Germania): un rapporto di 14 a 1 difficile da digerire. Più in generale, deve esser chiaro che le principali questioni che stanno interessando in questi anni l’industria dell’auto si incastrano, o meglio prendono forma, nei rapporti commerciali tra i Paesi. Gli Stati Uniti importano un valore di auto 3 volte superiore a quello che esportano. La Cina addirittura dieci volte di più. Mentre ad esempio il Giappone esporta nove volte le auto che importa e la Germania 3 volte.
Sono squilibri che generano pulsioni a un livello più alto che non la pubblica opinione. Nella realtà dei consumatori, in effetti, non c’è mai stato nessun diesel-gate legato all’affaire delle centraline truccate, visto che la quota di mercato di questo propulsore, che prima stava al 55%, quello stesso anno subito dopo lo scandalo arrivò al 57%, dove è rimasta stabilmente fino al 2017. Solo in questi ultimi mesi ha iniziato a flettere (54% nei primi 8 mesi), ma a causa delle minacce di alcune amministrazioni locali che, per non essere da meno di altre municipalità europee, hanno annunciato la guerra a questo propulsore, con motivazioni scientifiche inesistenti, come evidenziato dallo stesso CNR.
Articolo uscito su Il Sole 24 Ore il 15 settembre 2018 a firma di Pier Luigi del Viscovo.