
I CONTI SBALLATI DEL REGNO
Volano gli stracci a Downing Street. A ormai mesi alla scadenza del marzo 2019, quando l’uscita sarà operativa, ancora si confrontano se adottare una soft Brexit, come ha in mente il premier May, ovvero una hard Brexit, come vorrebbero gli irriducibili. È una patata che si sono procurati e che poi subito hanno deciso pervicacemente di pelare: Brexit means Brexit – dopotutto, sono Inglesi! Ora il dentifricio nel tubetto non lo possono rimettere. All’inizio la crema era morbida e profumata. La svalutazione immediata della sterlina e un tasso di sconto della Banca d’Inghilterra al minimo dello 0,25%, insieme a una domanda mondiale in espansione, diedero la spinta all’economia, facendo crescere il PIL ben oltre le aspettative e abbassando la disoccupazione. Alcuni videro in quei primi segnali la smentita di quanto gli economisti paventavano, inducendoli a credere che la Brexit potesse rivelarsi un toccasana per l’economia e il benessere dei Britannici.
Ma a distanza di due anni il quadro appare già profondamente diverso. Le importazioni più care stanno tenendo il ritmo dell’inflazione ben sopra la dinamica dei salari e la fiducia dei consumatori rimane bassa, con la spesa delle famiglie in calo. Nonostante il tasso di sconto fermo allo 0,5%, i piani di investimento delle imprese restano tiepidi e il PIL del Regno risulta l’unico, tra i Paesi del G7, a crescere nel 2018 meno di quanto fece nel 2015, prima della Brexit – che ancora non è nemmeno iniziata!
È questo lo scenario in cui si confrontano le due ricette, hard e soft, per venire a capo di questa separazione. La prima, sostenuta dal premier May, punta a conservare quanto più possibile il libero scambio con l’Unione, sotto la pressione della comunità economica d’oltremanica, che in verità solo recentemente sembra essersi accorta del problema. Non è affatto chiaro, inoltre, se questa proposta sarà comunque accettata da Bruxelles, visto che ci sono in ballo due elementi critici, quali la libera circolazione dei cittadini europei e la frontiera terrestre con l’Irlanda.
L’opzione di Johnson e soci, per una hard Brexit, al momento sembra avere poche chance di prevalere, nonostante l’impatto sul Gabinetto, visto che non contempla un piano di soluzioni che non sia quello, semplice e catastrofico, di uscire senza alcun accordo con l’UE, di gran lunga il principale partner economico: vale il 44% delle esportazioni e il 54% delle importazioni. Per dare un ordine di grandezza, quelle con gli USA pesano appena per il 15 e il 9%, rispettivamente – più o meno quanto la sola Germania. Secondo autorevoli osservatori, non hanno un piano perché, raccontando sciocchezze agli elettori, non volevano nè credevano di vincere il referendum, che hanno cavalcato solo per puntare alla leadership dei Tories.
Questa disputa interessa molto anche al di fuori dell’Europa, a quelle potenze che, più o meno dichiaratamente, paiono soffrire l’ingombro del monolite europeo, preferendo ovviamente potersi confrontare con i singoli stati separatamente. Trump comme d’habitude non le manda a dire, ma anche Putin non fa mistero delle sue simpatie per i vari sovranisti d’Europa. È un segno, se non ce ne fossero altri, che l’Unione qualche vantaggio lo porta ai suoi membri. Ma è anche il segno che in questo momento la sua coesione è ai minimi storici, e la bestia ferita suscita appetiti.
A noi Italiani, per quanto la Brexit possa piacere come filosofia di politica indipendente e sovrana, sia chiaro che nella vicenda stiamo da questa parte del tavolo, perché è lì che stanno i nostri interessi economici e il nostro Paese.
Articolo pubblicato su Il Giornale il 14 luglio 2018, a firma di Pier Luigi del Viscovo