La strada verso il multi-brand
La domanda di auto nuove sembra ormai destinata anche per i prossimi anni a non superare quota 1.800.000, che al netto dei noleggi (che contano per i volumi ma non per il margine) si riduce a poco più di 1 milione e mezzo, pari a un giro d’affari di 26 miliardi di euro. Appena due anni fa, nel 2009, la torta per i concessionari era di 30 miliardi.
In questo scalino c’è probabilmente il gong per un sistema distributivo che già da anni lamenta una scarsa redditività. Un sistema di circa 1.300 imprese che gestiscono circa 3.700 mandati. Un calo del 13% medio dei ricavi sul nuovo segna la differenza tra andare avanti, seppur a fatica, e cominciare a perdere pezzi, che significa chiusura degli show-room meno performanti o fallimento tout court dei più deboli: oggi uno qui, domani uno là. Così il mercato ritrova l’equilibrio tra domanda e offerta. Ma questo modo di laissez-faire alle sole forze del mercato porta al far-west.
Ascoltando alcuni importanti operatori (Case e concessionarie) intervenuti a la Capitale Automobile, è apparso chiaro un generale orientamento a proteggere le reti in questo periodo di domanda bassa, ma anche la consapevolezza che una certa concentrazione sia ormai ineluttabile. Soprattutto i grandi concessionari hanno detto chiaramente che ormai non c’è spazio sufficiente per tutti, che una selezione è inevitabile e che sarebbe opportuno guidarla, per non subirla. Infatti, più questo processo sarà pianificato e condiviso, meno dolore porterà a tutti. Due sono i punti di riferimento.
1. La copertura del territorio. Lo show-room di brand è un elemento essenziale per servire una determinata zona commerciale. Non si può pretendere che un cliente acquisti un’auto a una distanza eccessiva dal suo domicilio. Ovviamente si tratta di una distanza che varia – anche di molto – tra un brand generalista e un brand premium, e anche all’interno di uno stesso brand premium. Dunque va stabilita caso per caso, ma pensare che una Casa possa rinunciare alla giusta copertura territoriale è un’ingenuità.
2. La conoscenza del territorio. La vendita di automobili è un’attività commerciale che richiede un certo radicamento: i clienti di un’area devono identificare un brand con il concessionario di zona, che a sua volta deve conoscere storicamente la clientela locale. Si può chiedere a un concessionario di “sbarcare” in un territorio nuovo con un insediamento “green field”, ma si deve mettere in conto che i risultati non saranno subito a portata di mano.
La combinazione di queste esigenze suggerisce che – dove una provincia non esprime per un brand la domanda sufficiente a tenere un concessionario mono-brand – conviene trasferire il mandato a un altro concessionario della stessa provincia (seppur concorrente), invece di spingere il concessionario del medesimo brand della provincia limitrofa a coprire due zone.
Che questa sia la strada lo sappiamo già da quando alcuni grandi costruttori (principalmente GM, Ford e Mercedes) hanno iniziato ad acquisire altri brand per affidare al concessionario un pacchetto che aumentasse il suo giro d’affari (generando le sinergie necessarie a quadrare i conti), senza condividere l’attenzione e le risorse del distributore con una Casa concorrente. Quel processo guidato dalle Case non ha dato i frutti attesi, per cause in genere esterne alla distribuzione.
Oggi sappiamo bene che le Case sono piuttosto distanti da questa filosofia ed eserciteranno ogni pressione e faranno ogni sforzo, anche economico, per evitare di andare in questa direzione, anche se esponenti di brand particolarmente in salute dichiarano di non temere che un loro dealer lavori anche per la concorrenza.
Contro questa strategia distributiva si oppone che l’auto non può essere venduta come una qualsiasi commodity, insieme a tutte le altre, ma ha bisogno di un suo ambiente che aiuti a veicolare bene le emozioni. Del resto, anche Coca-Cola chiede – e spesso ottiene – che Pepsi non sia presente.
Ma affidarsi a un grande dealer non impone assolutamente di venir meno alle linee guida di esposizione e vendita dei modelli del brand, i cosiddetti “standard”. Piuttosto è vero il contrario.
Hanno ragione i concessionari quando lamentano certe imposizioni eccessive e anche qualche abuso, ma deve esser chiaro a tutti che un brand si vende anche per i suoi “intangibles”, che vanno comunicati nel punto vendita non meno che in altre sedi. Gli standard sono uno strumento del brand non rinunciabile. Anzi, proprio il dealer multi-brand deve potenziare la brand experience per il cliente attraverso gli standard. Contestarli significa non comprenderne il valore positivo e prestare il fianco alla chiusura della Casa verso soluzioni aperte ad altri brand.
In realtà, tra distribuire auto con un concessionario che non lavora per altri brand concorrenti e uno che lo fa c’è una sola differenza: i bilanci del dealer mono-brand dipenderanno sempre e solo dall’andamento del brand (per sua natura ciclico), mentre i risultati del dealer multi-brand sono il frutto di più brand (che normalmente hanno cicli contrapposti: sale uno e scende un altro).
Questo aspetto, che a prima vista riguarderebbe solo il concessionario, implica che la dipendenza del dealer dalla Casa è molto maggiore. Dunque, è una questione di potere, né più né meno. Maggiore è il potere, più facile sarà convincere il concessionario a condividere promozioni e sostegno alle vendite del brand, anche rinunciando a parte del margine. Equilibrando il potere, il dealer potrà avere più influenza nel determinare il margine sulle vendite.
Articolo pubblicato su Federauto Time di novembre-dicembre 2011 a firma di Pier Luigi del Viscovo