
Quanto ci costerebbe l’(eventuale) addio ai motori diesel
Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas? Così intitolò una sua conferenza Edward Lorenz, matematico pioniere della teoria del caos. Può un incidente grave a una centrale nucleare in Giappone determinare l’abbandono dell’energia atomica in Germania? Può un’indagine sulla manomissione di una centralina in Nord America provocare la messa al bando dei motori diesel in Europa? Sembra di sì. L’ironia è che se tutti i motori diesel in circolazione fossero come quegli Euro 5 del diesel-gate non ci sarebbe neppure il problema del diesel.
Nessuno di noi porterebbe i figli a giocare vicino a un tappeto di auto in coda che scaricano anidride carbonica e polveri sottili. Dunque siamo tutti d’accordo che queste emissioni vanno ridotte il più possibile, se non proprio eliminate. Secondo l’ultimo Rapporto 2016 dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, il 14% delle emissioni di particolato (PM10 e PM2,5) è riconducibile ai trasporti. Non è un buon motivo per non intervenire sulla riduzione o eliminazione dei motori diesel. Di quel 14%, ancora più della metà viene introdotto nell’aria dagli scarichi dei motori, nonostante l’ottimo contributo dei filtri anti-particolato. Circa il 40% deriva infatti non dal propulsore, ma dall’usura di freni e gomme. Sfortunatamente, ancora tutte le auto camminano su gomma e sì, di tanto in tanto frenano. Neanche questi sono motivi validi per difendere i propulsori diesel, che producono però circa il 20% di CO2 meno di quelli a benzina, perché più efficienti. Sia detto incidentalmente, era il motivo per cui vari Governi in Europa hanno nel tempo favorito il diesel rispetto al motore a scoppio.
Tutte considerazioni sterili, poco sopra le chiacchiere da bar, visto che ormai la bambolina di pezza su cui appuntare gli aghi si chiama diesel: il valzer è cominciato. Si ipotizza che nel giro di anni i motori diesel potrebbero essere fortemente emarginati, vietandone l’accesso nelle città o anche peggio. Vediamo allora di analizzare quali grandezze sociali ed economiche entrerebbero in gioco, laddove si dovesse procedere a interventi risoluti contro questi propulsori, che oggi rappresentano più del 40% delle auto circolanti in Italia.
UNO
La spesa degli italiani. Obbligare chi possiede una vettura a gasolio a sostituirla con una a benzina (meglio se ibrida) si può fare. Qualcuno lo farà a cuor leggero, mentre molti dovranno sacrificare altre spese sull’altare della salute. Più precisamente, di quel 60% del 14% di salute danneggiato dal particolato degli scarichi auto, meno il 20% di maggior contributo al riscaldamento globale. Quanto saranno contenti di farsi obbligare a cambiare la macchina invece di andare in vacanza o mandare i figli a un corso di studio all’estero? Però ci sarebbe sempre la vecchia strada di far pagare ai contribuenti, attraverso qualche lauto incentivo, in modo che gli italiani felici sarebbero molti di più. Certo, una politica simile dovrebbe durare almeno un lustro, se non un decennio. A giudicare dalla politica fiscale sulla casa, rappresentabile bene con il pendolo, difficilmente si potrà fare. È più verosimile aspettarsi qualche briciola che favorisca l’orientamento verso il benzina, ma senza obbligare nessuno. Così, chi normalmente cambia la macchina e dunque usa motori piuttosto nuovi e poco inquinanti, inquinerà ancora meno. Mentre chi resta seduto, per motivi economici, sui vecchi propulsori diesel, continuerà a farlo e a inquinare più di tutti.
DUE
La ricchezza degli italiani. Mettere al bando i motori diesel, in modo forte o morbido, comporterebbe una loro immediata svalutazione. Chi spenderebbe dei soldi per acquistare un’auto usata diesel, che non potrà circolare se non con pesanti limitazioni? Il valore di queste vetture non andrebbe a zero, perché subito i mercati limitrofi, dall’Africa al vicino Oriente, prenderebbero il beneficio di acquistarle a prezzi molto svalutati: il 40 o il 50% potrebbe essere realistico. Poiché da alcune analisi accreditate il valore delle vetture usate vendute dai concessionari arriva in media quasi a 8.000 euro, e assumendo che quelle vendute tra privati o da commercianti siano di valore inferiore, intorno a 5.000 euro di media, parliamo almeno di 2.500 euro a macchina, su oltre 14 milioni di auto. Non ci sono molti altri i modi con cui impoverire di 35 miliardi un Paese in tempo di pace. Eventuali incentivi partirebbero non da zero ma da meno 2.500 euro.
TRE
L’industria italiana ed europea. L’opinione pubblica orienta le decisioni tenendo a cuore i propri interessi. Gli europei, che sono opulenti, badano soprattutto, e giustamente, alla salute. Sfortunatamente, anche le industrie badano ai propri interessi, la cui salute è il bilancio. Nella competizione globale sull’automobile, capita che per varie ragioni l’Europa si sia specializzata sui propulsori a gasolio, più del Nord America (motori a scoppio) e del Giappone, molto avanti sulla tecnologia ibrida. La salute viene prima dei soldi, però è opportuno sapere che il prezzo di quella salute (sempre il 60% del 14%, meno il 20% di CO2) colpisce la competitività di quelle industrie dove alcuni milioni di cittadini si recano ogni giorno. Potranno anche non andarci più, ma sarebbe bene che nel frattempo si sviluppassero altre occasioni di produzione, magari in settori meno maturi.
In conclusione, la politica in Europa sta per prendere posizione rispetto ai motori diesel, ma probabilmente sarà una posizione di alto volume e poca musica. Ibrida, insomma.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore ad il 20 maggio 2017, a firma di Pier Luigi del Viscovo