Quelle criticità del salone italiano
Il Motor Show 2013 è morto. «Ca pace all’anima sua!» direbbe Montalbano. Invece è tutto un fiorire di nostalgia e commiserazione di lesa nazionalità. Come se un mercato nazionale contasse di più per un salone. Oggi conti per la leadership di innovazioni e sperimentazioni che esprimi. Poi anche per l’equilibrio del business, che deve (deve!) produrre profitti e li distribuisce equamente lungo la filiera degli operatori: costruttori, concessionari, com-ponentisti, ricambisti, riparatori, noleggiatori.
Che il motorshow costasse più di quanto portava come ritorno era un’idea che circolava da anni. La prova l’hanno fornita gli stessi operatori: appena sono crollati i budget l’hanno cancellato. Certo, prima 1,8 milioni di privati compravano un’auto, oggi la metà. Sarà. Però le promozioni sono proprio la leva per la domanda matura. Evidentemente mostrare le macchine a stuoli di ragazzi, anche minorenni non patentati, non portava poi tutte quelle vendite aggiuntive. Ma se non vendeva serviva comunque a promuovere il brand, anche verso i ragazzi, i futuri clienti. Meno male. Visto quanto è prioritaria oggi l’auto per i giovani, figuriamoci se il MS non ci fosse stato.
Diciamolo, un salone dell’auto, non solo il Ms, è soprattutto l’esibizione dell’Ego dell’industria domestica, ospitante, che poco o punto ha a che fare con le vendite. Così, finchè queste vanno bene e pagano il conto, ok. Quan-do calano, scende l’Ego e si cancella il salone.
Un salone nasce come fiera campionaria: i costruttori mostrano i prodotti ai clienti/distributori, che fanno ordini. Quanto è attuale questo nel Ms e negli altri saloni che ancora tengono? Nell’epoca di internet, poi. Il resto è show, appunto. Magari a Rho. A proposito, a quale staff si affiderà Cazzola per organizzare il suo nuovo Milano auto show? Ce n’è uno bravissimo, a Bologna.
In attesa della risposta, possiamo consolarci. Le Case ci hanno regalato per decenni un evento bellissimo e piacevolissimo. Ma appena è diventato insostenibile hanno saputo staccare la spina. Con buona pace della retorica nazionalista, quella per cui gli Italiani devono pagare i debiti di Alitalia e dunque non hanno soldi per cambiarsi la macchina. Sembra una splendida lezione che tutti i protagonisti del comparto potrebbero impartire, quando siedono ai “tavoli”. Non in mano, il capello, ma in testa. E questa ben alta.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore il 2 dicembre 2013 a firma di Pier Luigi del Viscovo