
Troppi Km zero rischiano di vanificarne lo scopo economico.
Grafico in fondo all’articolo.
Il ricorso ai km zero oscilla da alcuni anni tra il 7 e il 7e ½ percento delle immatricolazioni, dopo che nel 2010 era stato più basso, poco sopra il 5%, grazie al residuo degli incentivi che avevano saziato la fame di volumi delle fabbriche e di quota di mercato delle sales company.
Eppure, da alcuni mesi Federauto tuona contro il ricorso a questa forma di alterazione della domanda. Però il dato del 2016 (primi 9 mesi) non svetta rispetto agli anni precedenti, segnando un 7,6%, che è sì alto, ma non fuori norma.
In realtà, a ben guardare i dati mensili (elaborati da InterAuto News) si osserva come siano gli ultimi mesi ad aver impresso una crescita ai km zero, rispetto allo scorso anno. Già a maggio ne furono fatti oltre 13.000 in più, e passi. Ma quando a settembre – complice la chiusura del trimestre e dei relativi obiettivi di quota – sono arrivati quasi a 8.000 in più, evidentemente è stato ritenuto opportuno mandare un segnale.
Il problema esiste e trova origine – come è emerso durante il dibattito a La Capitale Automobile del 20 ottobre – nella necessità dei costruttori di tenere alta l’occupazione degli impianti di produzione, sia per problemi legati alle relazioni industriali e sia perché, con un certo numero di auto prodotte, il costo unitario resta competitivo e lascia spazio per le azioni a sostegno della domanda, senza intaccare troppo il margine della casa e del concessionario. Ma se poi questo deve utilizzare la sua capacità finanziaria per fare magazzino di km zero, finisce per essere un gatto che si morde la coda, no?