Standard, facciamo chiarezza

 In Bollettino, Nuovo

Di cosa si lamentano i concessionari? Ovviamente si fa prima a porre la domanda inversa, però una cosa che proprio li manda fuori dai gangheri – perché non la capiscono – è la richiesta delle Case di adattarsi agli standard, pure in un momento di estrema difficoltà come l’attuale. C’è standard e standard, ma qui si parla di quelli che fanno scorrere il sangue, ossia investimenti in strutture, che hanno il duplice difetto di assorbire capacità finanziaria della concessionaria e trasformarsi in perdita secca quando magari il mandato cessa. E in questi periodi, in cui si naviga a vista sulla durata dei mandati e anche sulla permanenza nel business, non è proprio il caso di fare investimenti allegri.

Tuttavia, porre la questione “standard sì, standard no” è sbagliato. Quando si vende un prodotto bisogna raccontare una storia e, nei limiti del possibile, far “sentire” quella storia nel modo più tangibile possibile, in modo che la sua capacità di seduzione sia enfatizzata al massimo. Questo è sacrosanto e sposa l’interesse di entrambi, Casa e concessionaria. Un concessionario dovrebbe chiedere più standard, non meno. Nel senso di standard ancora più efficaci, perché meglio raccontano la storia e meno si deve concedere al cliente, in forma di sconto o altri vantaggi. Questo è uno dei teoremi basilari del marketing, che si studia al primo anno. Poi però al secondo ti insegnano anche il corollario: quell’atmosfera deve costare meno di quanto costerebbe sedurre il cliente con sconti e altri vantaggi. Se costa di più, torna alla casella di partenza e ricomincia da capo. In altre parole, la questione non è standard SÌ/NO, ma standard COME.

Far vivere al cliente un’esperienza attraverso il colore di una tenda o di un pavimento o attraverso una struttura architettonica è una strada, ma non LA strada, né la più moderna. Oggi, è sicuramente la meno sostenibile economicamente. Da questi elementi si dovrebbe partire per guardare altrove e magari scoprire che ci sono già ottimi esempi di negozi-esperienza. Invece di stare chiusi nelle riunioni, estenuanti quanto inutili se non pericolose per il grado di astrazione dalla realtà, sarebbe illuminante andare a passeggio nei negozi frequentati dagli adolescenti: Abercrombie & Fitch, Levi’s Store, Brandy & Melville, per citarne alcuni. Quei giovani che oggi risultano dalle statistiche “distaccati” e “meno appassionati” di automobili. Cosa si nota entrando in questi negozi?

Primo, c’è una forte atmosfera, i sensi vengono stimolati e l’attrazione esercitata dai prodotti è al massimo: è difficile resistere al desiderio di acquistare. È così anche negli autosaloni?

Secondo, la struttura hardware è in secondo piano. In alcuni casi è decisamente economica, realizzata per fare da sfondo. Ma non si nota, non emerge come una mancanza. Semplicemente perché gran parte del lavoro di comunicazione e di experience è affidato al software. È così anche negli autosaloni?

Terzo, appunto, il software è il vero punto di forza. La musica: costa poco, aiuta tanto, investimenti zero, è facilmente modificabile in funzione dei prodotti offerti. Quanta musica c’è negli autosaloni? Le luci: entrando da Levi’s e da A&Fitch colpisce il buio. È difficile vedere i colori reali dei prodotti esposti. Quanto contribuiscono le luci all’esperienza? Quanto coraggio ci vuole per impedire di cogliere i colori di una maglia? Forse, dopo tutto, il colore non è così importante? Dal punto di vista dei colori, l’atmosfera degli autosaloni è più vicina a Levi’s o a un reparto ben tenuto di cardiologia? I video chilometri di filmati realizzati sulle strade più affascinanti del mondo – con budget milionari – disponibili in rete sui siti delle auto. Quanti videowall ci sono negli autosaloni? Perché il concessionario non impone alla Casa di fornirgli in streming i video e la musica in tempo reale? Questo non farebbe la differenza con i salonisti?  Meet-me-in-Melville: i teenagers si danno appuntamento in questi negozi, perché è bello passarci il tempo, anche se non comprano. Quanti si danno appuntamento in concessionaria? Questo punto fu esplorato negli anni ’90 da alcune Case con i bar/ristoranti branded, nel solito modo elefantiaco e burocratico di entrare nelle cristallerie, che è finito come sappiamo: buttando soldi senza vendere macchine.

Quarto, le persone. Chi lavora in questi “experience-store” interpreta i prodotti venduti, con l’abbigliamento e con il comportamento. Si fanno guardare, si fanno seguire, non per scortesia ma perché sono sempre impegnati a fare qualcosa che però può essere interrotta facilmente, esercitano fascino sul loro target, parlano con più clienti contemporaneamente. Sono come i prodotti che vendono e come i clienti vorrebbero essere. Quanti clienti vorrebbero essere come i venditori di automobili?

Quinto, piace alla gente che piace. Ce la ricordiamo, la pubblicità della Y, no? Nei negozi trendy la gente che piace ci va, a inaugurare, a curiosare. E sono eventi, annunciati alla clientela in anticipo. Quanti autosaloni servono invece dei VIP senza dirlo a nessuno?

Dunque, i concessionari non devono contestare la strategia della Casa di puntare sull’experience, anzi. Devono fare pressione sulla Casa affinché questa experience sia rafforzata, ottenendo di più a costi inferiori. Ma, sia chiaro, deve essere spesa corrente, non investimenti. Perché deve essere sempre possibile cambiare in tempi brevi, visto che le sensibilità del pubblico (necessarie per dare grip alla comunicazione) sono articolate e mutevoli. Ma tenersi bassi con gli investimenti a medio-lungo è un imperativo anche sul fronte gestionale. La flessibilità economico-finanziaria è una leva competitiva. Oggi molti cercano una via per uscire dal business: gli ammortamenti sono una via senza uscita.

Articolo pubblicato su Federauto Time di settembre-ottobre 2012 a firma di Pier Luigi del Viscovo

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