DIESELGATE 7 ANNI DOPO, MOLTO PIÙ DI UNA CENTRALINA TRUCCATA MA UNO TSUNAMI PER L’AUTO

 In Bollettino, Nuovo

Il 18 settembre del 2015 scoppiò lo scandalo dieselgate di Vw e l’industria dell’auto non fu più la stessa.

 

Nel settembre di sette anni fa, era un venerdì 18, rimbalzò dall’America la notizia che l’EPA (Environmental Protection Agency) aveva riscontrato che la Volkswagen aveva installato illegalmente un software nella centralina, programmato per aggirare le norme ambientali sulle emissioni di NOx (ossidi di azoto) delle proprie vetture a gasolio, all’epoca conformi alla normativa Euro5. Il software era programmato per rilevare quando la vettura fosse sottoposta a test, azionando una riduzione delle prestazioni e delle relative emissioni, così da superare il test.

 

Nessuna vittima, tanti colpevoli

La reazione generale fu ovviamente di condanna del comportamento, ma non era il primo scandalo che interessava l’industria automobilistica e certo non sarebbe stato l’ultimo. Dieci anni prima, alcune auto giapponesi manifestarono un malfunzionamento del pedale dell’acceleratore che impediva di diminuire il gas e la velocità, portando a collisioni che in qualche caso furono mortali. Ancora prima, un modello di auto americana poteva incendiarsi in caso di piccoli tamponamenti che interessassero le luci posteriori. Il primo commento allo scandalo delle centraline fu di tranquillizzare il pubblico che in questo caso non c’erano vittime, anzi nessuno s’era fatto male in assoluto.

Già questa affermazione venne contestata dagli ambientalisti, che attribuivano all’inquinamento ambientale l’insorgere di malattie respiratorie e polmonari, con conseguenze potenzialmente letali. In effetti, lo studio dell’EPA aveva osservato l’impatto nocivo delle sostanze emesse da veicoli diesel, in particolare quelli molto vecchi usati nel secolo scorso nelle miniere americane. Relazione sicuramente vera. Più improbabile addebitare le medesime pericolosità a vetture Euro5, di gran lunga più pulite e meno inquinanti di quasi tutte quelle vendute negli Stati Uniti, per tacere di quelle in circolazione. Anche di qua del lago è piuttosto diffusa nell’opinione pubblica la nemesi che, per punire le auto vecchie, colpisce quelle nuove che sono destinate proprio a sostituirle.

In quel settembre, sembrò l’ennesimo scandalo destinato a sgonfiarsi dopo poco. Invece non fu così. Anni dopo, quando l’industria dell’auto europea si è trovata sotto il fuoco amico, messa all’angolo da quella stessa politica che dovrebbe aiutare gli oltre 3 milioni di addetti diretti a competere con i gruppi extra-europei, tutti i vertici concordavano nel ricondurre al diesel-gate la sorgente dei loro problemi. Non era la sanzione per un’infrazione come ce ne sono tante, quanto piuttosto l’arma carica per colpire duramente un’industria vitale del continente, capace di competere con successo con i rivali asiatici e americani, e il suo Paese-simbolo, la Germania.

Da Volkswagen-gate a diesel-gate

Se sia stato architettato dagli Americani non siamo in grado di affermarlo. Che però sia stato cavalcato e utilizzato per interessi diversi pare innegabile. Lato americano, da tempo covava un’insofferenza per una bilancia commerciale troppo sbilanciata a favore delle esportazioni di auto tedesche. Oltre l’auto, gli Stati Uniti non erano contenti che la politica energetica tedesca stesse per raddoppiare la sua dipendenza dalla Russia con la firma, proprio a giugno, settimane prima dello scandalo delle centraline, dell’accordo per il gasdotto NordStream2, che gli americani avrebbero contrastato fino a pochi mesi fa, praticamente evitando che entrasse mai in funzione. Col senno di poi, chissà quanta parte abbia avuto il diesel-gate americano nella scelta dell’industria automobilistica tedesca, negli anni a seguire, di puntare tutto sulla Cina.

Però la palla di neve è diventata valanga col contributo di tanti. Si sa, quando al biliardo decidi di spaccare non sai mai quali palline vanno in quale buca. Poiché il Mondo non è propriamente quel giardino incantato che molti hanno voluto immaginare negli ultimi trent’anni, c’è chi ha salutato la debolezza del primo costruttore mondiale come un’occasione per dare qualche sgomitata. Del resto, più volte da queste colonne abbiamo posto la domanda angolare: com’è che un Volkswagen-gate diventa un diesel-gate? Non è un mistero che furori ambientalisti abbiano provato, con indubbio successo, a scaricare sull’industria e sull’auto ogni nefandezza legata all’ambiente, ben oltre le cifre reali che avrebbero suggerito di passare oltre e cercare altrove. In questa crociata sono stati aiutati, e non poco, dalla stessa industria automobilistica, a cominciare dai tedeschi. Non riuscendo ad accettare di essere pescati con le mani nella marmellata, si sono gettati sulla loro spada nel tentativo di mondare la vergogna. Ore dopo lo scandalo, l’amministratore delegato del Gruppo di Wolfsburg, Martin Winterkorn, si disse “sbalordito dal fatto che un comportamento scorretto di queste proporzioni possa essersi concretizzato all’interno del gruppo Volkswagen” aggiungendo di “assumersi la responsabilità per le irregolarità riscontrate nei motori diesel” e di “accettare la richiesta di dimissioni avanzata dal Supervisory Board”. Per il Paradiso va bene, ma in questa valle di lacrime un approccio diverso poteva aiutare: negare, mediare, attendere, eccepire, bilanciare. Decine di milioni di persone ogni mattina girano la chiava di un’auto del Gruppo Volkswagen. Hanno dimostrato coi fatti, i loro acquisti post diesel-gate, che sarebbero stati disponibili a condannare e poi dimenticare.

Il silenzio assordante dell’industria

Gli altri costruttori europei, a cui magari nemmeno dispiaceva del tutto lo sgambetto al colosso, non ebbero il medesimo fiuto dei loro avversari, quelli del partito anti-auto, e non capirono la portata del problema. Probabilmente confidavano sul favore che il pubblico degli automobilisti continuava a tributare al prodotto, a cominciare da quello Volkswagen. Avevano ragione, quel favore, costruito nei decenni, era reale, ma andava usato. I clienti meritavano di sentirsi dire che no, non erano loro i colpevoli dell’inquinamento e del riscaldamento. Anzi, chi acquistava macchine nuove migliorava l’ambiente, come gli ingegneri di Audi arrivarono a dimostrare e anche a pubblicizzare qualche tempo dopo. Ma era troppo poco e troppo tardi. In generale, sono stati vittime di quel trattamento privilegiato di cui hanno beneficiato per quasi un secolo e che li ha indotti a pensare che bastasse piegarsi in attesa che passasse la bufera. Ma questa bufera era stata trasformata in uno tsunami e non passava. Meglio avrebbero fatto ad opporre le loro ragioni, basate sui fatti, a chi cercava di distruggerli.

Nemmeno le istituzioni politiche colsero la portata economica e politica della valanga, intrise di ideologie ambientaliste e spaventate che “Cappuccetto Giallo” potesse spiazzarle nelle strade. Potevano chiedersi dove fosse l’interesse economico dei cittadini europei e metterci un segno sopra, partendo da lì per fare il dovuto risiko geo-politico con chi puntava a indebolire la nostra industria a beneficio della sua. Invece, sicuri che nessuno potesse disturbare il benessere raggiunto, hanno continuato a immaginarsi l’ombelico del Mondo e cogliere l’unica sfida che ritenevano all’altezza di una civiltà superiore: la salvezza del pianeta. In realtà, accontentandosi di testimoniarlo, visto che la salvezza si pone ben oltre ciò che l’Europa è, in termini di emissioni.

 

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore il 15 settembre 2022 a firma di Pier Luigi del Viscovo

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